DELLA SANTITA' DI NOVENTA
DI ORLANDO TISATO
Noventa, io non so cosa ci fosse prima sotto i tuoi muri, dietro e dentro le tue antiche facciate: io non so cosa ci sia ora sotto il tuo fresco d’asfalto con le giallognole luci sui sacri muri della mia bianca chiesa – bambina – a limare la mia vita. Non so. Ti ricordo, sei in me, come la buona vita, la santa realtà. Mi ricordo: era bella la notte! Bastava uno spiraglio di luna sul marmorino screpolato delle tue case per far scorrere correnti di musica: Vivaldi e Albinoni, dentro i tuoi bianchi di primavera e nelle tue fumate d’autunno, lungo i fossi con i salgari. Una semplice canzone, da due soldi, per darci il cuore antico, sempre in attesa di calendimaggio.
La ruspa, no, non è riuscita ancora a togliere dai miei nudi piedi e dal fondo della mia coscienza il bene delle tue strade con la nostalgia di ripercorrere quei ritmi, lo spazio – tempo della stabilità, nel mio faticoso pellegrinare per il mondo. I nomi delle tue strade sono per me come i nomi delle stelle, fondamenti ed orientazione: Cappello, Cominotto, Valmarana! Tutte le strade del mondo, da Roma a Parigi, da Assisi a New York furono colmate dal vostro segreto silenzio: il giro, l’arco, la totalità dei ritmi dell’universo, con suoni quasi d’oriente, il verde di Noventa, mescolato alle sue campane! Le ville e gli alberi, il piccolo Piovego, fino al Brenta, un’unità incredibile come i mosaici di Ravenna, negli orti di Bisanzio, sul canale di Torcello. Così le “Buse de Capuzzo” e quelle di Faneco. Ero ammalato ad Assisi, pieno di terrore a New York e sognavo di riposare la sera con i dolci concerti delle tue magnifiche rane. La Pasqua russa? La tua Pasqua, Noventa, l’odore della polenta e quello della resina, sui muri tuoi, nella notte del venerdì santo! Pasqua: barattoli di resina i tuoi splendori notturni!
Contesse cristiane e nobili contadine le nostre madri, le maestre e le guide sui tuoi viali pieni di processioni. La mamma Cappello e Vittoria, la mia, ritmano ancora, insieme, i loro passi verso la chiesa con gli ultimi ritocchi della campana piccola. D’estate e d’inverno vanno ancora alla messa, quella delle sei. Così che, se la ruspa non lasciasse posto al piede dell’uomo io le sento inventare, per Noventa, viali nel Cielo.
Mi ricordo dei maronari, quand’erano in fiore! Nessuno ha mai pensato di ridarti, villa di Bianca Cappello, la tua corona di ippocastano? Erano i candelabri di tutti, quando fioriva maggio, la piccola legna, il fuoco d’inverno nella casa del povero, e le candele per il fioretto di maggio! Sì, il tempo e le liberazioni ti hanno certo liberata, Noventa, di alcune cose importanti. Con gli ippocastani sono caduti i muretti rotondi sul sagrato della tua chiesa. E quelli, io li rimpiango: niente li ha sostituiti; ora che l’asfalto sbatte sulla porta di casa sarebbero due mani e la chiesa per il ringraziamento dopo la comunione. Li rimpiango come una lezione perduta, nel gioco dei bambini, nella sosta dei tuoi novelli preti e dei tuoi giovani sposi.
Il senso del sacro oggi va rispettato molto più fuori della Chiesa, se il cristianesimo è una vita e se la liturgia continua come il mistero totale di Cristo nella nostra vita. Dove passa un cristiano è la Chiesa che passa e informa di sé le umane strutture. I padri hanno detto: “Se i pagani t’interrogano sulla tua fede, portali a vedere le tue icone”. Noventa, tu sei tutta un’icona! Tutto, il tuo ordine di alberi e boschi attorno alla tua chiesa e alle tue case, nello spazio del prato era pensato e accaduto come un luogo di preghiera, aperto a tutti. Ricordo i tuoi gitani, gli zingari, arrivare verso sera sui carri come delle navi verso un porto ospitale di pace. Accendevano i fuochi sotto il grande pino a piramide, di qua del cancello chiuso, in armonia aperta, nel silenzio dei tuoi tramonti rossi. Nessuno allora poteva pensare con timore ai gitani: tutto calava nell’unità dove c’era posto per tutti perché c’era posto per l’uomo, per le feste, per i differenti costumi, per il forestiero, per il silenzio e per la preghiera.
Noventa, penso a questo bene, alla tua bellezza, come ad una risposta nell’inquietudine dei nostri giorni, nella crisi d’identità che tutti ci percorre, e ti ringrazio, ti vedo ancora capace del miracolo. Ora che le scuole sono in crisi di spazio, ogni luogo pubblico è la scuola stessa, la scuola di tutti. Che t’ha insegnato la scuola, povero Orlando, la tua quinta stentata a stomaco vuoto? A che servirebbero le scuole e i seminari se non potessero guardare fuori dalla porta? Se fuori non ci fosse più niente di sacro? Se ci dimenticassimo, Noventa, dei tuoi concerti in villa, dei giochi dei ragazzi sul prato, dei tuoi funerali, se una dopo l’altra finissero tutte le tue feste, se non si rinnovassero? Dal Corpus Domini a quella del Rosario? Se il tuo palazzon de’ Suppiei, bianco, non fosse tornato in vita per sostenere la religiosa, unica profondità verde del tuo prato? Sì, sei un luogo sacro, una civiltà, un dono del Signore. Sei bella. Sii la benedetta!”
TISATO “La Difesa del popolo”, 27 ottobre 1974